Risale al 9 gennaio scorso la notizia delle trattative tra il colosso giapponese Asahi, che tutti abbiamo imparato a conoscere grazie alla diffusione massiccia di ristoranti giapponesi, e la sudafricana SABMiller, il gigante con sede a Londra che gestisce 6 dei marchi di birra biù bevuti e apprezzati nel mondo (tra cui, appunto, l’olandese Grolsh e l’italiana Peroni).

La Grolsch affonda le sue radici nell’Olanda del 1615, a Groenlo, e dopo una tradizione di 400 anni è stata acquisita dalla SAB nel 2008. Peroni è la nostra bionda: nata a Vigevano nel 1846, appartiene alla SAB dal 2003 ed è ancora un simbolo italiano in tutto il mondo. La sua ricetta, ideata da Francesco Peroni, è leggenda: i “4 ingredienti” – acqua di acquedotto filtrata, malto d’orzo a semina primaverile, granturco nazionale e luppolo varietà saaz-saaz, tettnang e willamett – sono rimasti invariati dai tempi del Regno di Savoia.

Entrambi i sottomarchi sono considerati i fiori all’occhiello del gruppo, il prodotto premium, marchi piccoli ma appetibili dal mercato per il loro nome e la loro tradizione (celeberrimi i primi spot dell’italiana “Chiamami Peroni, sarò la tua birra”). Perchè cederli?

SABMiller è stata acquisita nel 2015 (ma le operazioni si stanno chiudendo adesso) dal gruppo anglo-belga Ab InBev, con trattative da 100 miliardi di dollari. Per non incorrere nelle severe leggi antitrust dell’Unione Europea, la compagnia si ritrova quindi costretta a sfoltire il proprio portafoglio, e l’offerta giapponese è decisamente generosa: 3,2 miliardi di euro sono stati offerti dalla Asahi Group Holdings, per quella che sar ebbe la più grande operazione economica della storia tra oriente ed occidente.

Il giornale nipponico Nikkei ha rivelato che l’affare sarà concluso entro marzo. Ma se la chiamiamo Peroni, sarà ancora la nostra birra?

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