di Gaia Regoli.

L’Olanda non è totalmente fredda e distaccata, sensazione che dà di primo acchito come capita a chi si sofferma a guardare la copertina di un libro mai letto. Stereotipi e preconcetti insidiano la nostra mente come pile di libri nello scaffale di un supermercato. Questo paese che mi era inizialmente apparso grigiastro, riesce a stupirmi in maniera crescente per le sue iniziative artistiche e culturali, la sua continua proiezione verso il futuro, la sua intrigante vivacità.

Dedico questo mio primo articolo ad un festival che si è tenuto a Rotterdam dal 26 al 30 settembre: il Camera Japan Festival. Questa scelta nasce, in primo luogo, dalla mia istintiva attrazione verso quell’Asia che non conosco ma che mi appare e si pone così diversa dal mondo in cui ho vissuto sinora.

Alcune espressioni visive della cultura giapponese corrente hanno rappresentato il fulcro di questo festival: film, anime [Nda: neologismo che sta ad indicare, seppure in maniera che qui in Occidente percepiamo con approssimazione, i cartoni animati giapponesi], esposizioni artistiche, workshop di danze tradizionali.

Ho avuto il piacere di assistere alla cerimonia inaugurale del festival: dapprima vi è stata la proiezione di un documentario dal titolo

inglese piuttosto volgare (che naturalmente riporto per completezza: “Mother Fucker”), avente come soggetto la vita di una famiglia facente parte di una punk band giapponese. A seguire è stata l’esibizione di Yamane Hoshiko, una violinista di formazione classica attualmente residente a Berlino, nota per essere uno degli elementi chiave del gruppo musicale tedesco “Tangerine Dream”, fondato nel 1967 e pioniere della musica elettronica.

Suggestivo il luogo scelto, il WORM, uno dei più celebri locali di Rotterdam.

Il pubblico era composto da appassionati del genere e da alcuni curiosi attratti dalla singolarità dell’argomento.

Proseguendo nella lettura delle pagine di questo libro ideale, in compagnia della mia fedele bicicletta e di qualche amico mi sono ritrovata a vagare per Rotterdam alla ricerca di altri eventi legati al Camera Japan Festival.

Sono così giunta al LantarenVenster, il complesso di sale cinematografiche della città che al momento prediligo. Superata la porta girevole, il mio sguardo si è posato sull’enorme, colorato e bizzarro ragno di peluche che mi osservava dal soffitto. Ovunque vi erano lampade dalle fattezze di mostro: occhi, lingue, ragnatele, il tutto a costituire un allestimento non privo di ironia.

Dopo pochi minuti mi sono ritrovata ad assistere alla proiezione del film “Kanazawa Shutter Girl” del regista Terauchi Kotaro. Il film narra di una ragazza molto legata alle sue amiche d’infanzia e che si trova ad affrontare l’inizio del liceo completamente persa nella propria solitudine, sorpresa dalla facilità con cui le amiche del passato sembrano facilmente inserirsi nel nuovo ambiente scolastico.

Uscendo dalla sala, mi sono persa nel labirinto di corridoi per infine imbattermi in una teoria di fotografie in bianco e nero, costituenti l’esibizione “Tokyo Seclusion”. Questa serie di fotografie è stata scattata dall’olandese Victor Borst nelle strade dell’affollata Tokyo: le immagini mostrano persone di questo mondo così lontano ma così affollato e simile al nostro nella disperata ricerca della quiete dell’isolamento. Il contrasto tra la folla e l’isolamento è magistralmente reso dall’utilizzo del bianco e nero. Condivido l’immagine che più mi ha colpito e che trovate immediatamente qui sotto.

Le prime pagine di questo ignoto libro, forse non altro se non la semplice sua introduzione, mi hanno aperto nuovi orizzonti e fornito chiavi di lettura più aperte, più universali, meno convenzionali. Di qui procederà ora la mia lettura.

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